Due quadri e un tavolo
Richter Fine Art è lieta di presentare la mostra Due quadri e un tavolo, che da martedì 20 ottobre connette, negli spazi della galleria, le poetiche di tre artisti: Luca Grechi (1985), Marta Mancini (Roma, 1981), Caterina Silva (Roma, 1983).
Due quadri e un tavolo è il titolo della mostra e la mostra stessa. Un titolo preciso che descrive per filo e per segno la successione delle opere nello spazio espositivo, fornendo la scaletta che cadenza un ritmo di visione: due dipinti di Mancini e Silva, rispettivamente Senza titolo (Febbraio) del 2019 e Cry del 2019, e il lavoro installativo di Grechi, Senza tavolo del 2020, pensato appositamente per lo spazio inferiore della galleria. Questo ci sembra sufficiente, due quadri e un tavolo e il gioco è fatto.
Tre opere connesse tra loro, punto e basta. Eppure il titolo rivela subito un anello mancante, una deviazione dalla strada maestra, i piani si ribaltano, tra il sotto e il sopra gli artisti giocano con questa ambiguità, superficie e tridimensionalità, esplicito e implicito.
Il tavolo è un oggetto giocosamente simbolico che implica l’importanza di “cercare posizione”. Verrebbe quasi da pensare che la posizione abbia qualcosa a che fare con i quadri, o viceversa, e con il dubbio perpetuo che questi si trascinano dietro.
La franchezza della composizione del dipinto di Marta Mancini è in realtà raggiunta dopo molti passaggi, in cui il grigio che vediamo come sfondo è parte attiva che copre gradualmente il dipinto rilevandone il carattere latente. Le forme dell’opera sembrano emergere posandosi l’una sull’altra. Ma è una figura, un’impalcatura, un’architettura, uno stare in posizione, giusto un saltello a destra dalla metà del quadro. La franchezza è qui in una pulizia di visione che tira in ballo l’osservatore, tra frontalità e illusione 3D.
La grande macchia terrosa al centro del dipinto di Caterina Silva è anche un vuoto. Si contende l’attenzione con dei segni aguzzi che stanno ai lati, quasi-figure che a loro volta stridono con una presenza più d’atmosfera dell’intero dipinto. Nell’astrazione di Silva, dove tutto appare perdizione e caos, ciò che vediamo è invece vero, accaduto realmente intorno al quadro per poi convergervi in maniera antigerarchica. Si potrebbe parlare di orizzontalità, di una poetica dell’assorbimento, se non fosse per quel confine dentro-fuori che rimane ambiguo eppure sostanziale: come il tentativo di spostare ciò che sta fuori dentro e viceversa. La sensazione che tra il quadro e la vita il margine sia volutamente sfumato è accentuata dall’assenza del telaio, struttura sottratta come naturale conseguenza di continui spostamenti e decostruzioni.
Guardando il lavoro di Grechi ci si chiede innanzitutto: cosa c’entra con i quadri? È esso stesso un quadro? L’opera si impone nello spazio come dispositivo visivo ma lascia scorgere le pitture solo da alcune angolazioni. Vista da sopra, sembrerebbe quasi simulare il piano da lavoro del pittore: un barattolo di vernice rossa si rovescia improvvisamente; da qualche altra parte il dito ha indugiato nella tentazione di ricavare un disegno. Da sotto, la pittura è un soffitto, i segni un poco sbiaditi si guardano come all’ombra di una chiesa. Attraverso le gambe, la pittura diventa aria, eterea. Il dubbio identitario permane.